Nei giorni scorsi è stata presentata a Roma, da Giuseppe De Rita, presso il Censis, una ricerca annuale sulla “Crisi sociale del Mezzogiorno”. I risultati sono sorprendenti e, ancora una volta, devastanti. Il Mezzogiorno risulta abbandonato a se stesso. Al Sud redditi più bassi che in Grecia. Qui il 60% dei posti di lavoro persi dall’inizio della crisi. Spesa pubblica per l’istruzione superiore del 25% a quella del Centro-Nord, ma i livelli di apprendimento sono peggiori. E si fugge dalla bassa qualità dei servizi nella sanità e all’università. La crisi ha allargato negli ultimi anni il divario Nord-Sud.
Ma la recessione attuale è solo l’ultimo tassello di una serie di criticità che si sono stratificate nel tempo: piani di governo poco chiari, una burocrazia lenta nella gestione delle risorse pubbliche, infrastrutture scarsamente competitive, una limitata apertura ai mercati esteri e un forte razionamento del credito hanno indebolito il sistema-Mezzogiorno fino quasi a spezzarlo. Negli ultimi decenni si è verificata un’ulteriore inefficacia delle politiche di sostegno allo sviluppo messe in atto. Le stesse non hanno saputo garantire maggiore occupazione, nuova imprenditorialità, migliore coesione sociale, modernizzazione dell’offerta dei servizi pubblici. Il mercato del lavoro si è destrutturato e impoverito ulteriormente.
Dei 505.000 posti di lavoro persi in Italia dall’inizio della crisi, tra il 2008 e il 2012, il 60% ha riguardato il Mezzogiorno (più di 300.000). Il Sud ha pagato la parte più cospicua di un costo già insopportabile per il Paese e si conferma come un territorio di emarginazione di alcune categorie sociali, come i giovani e le donne. Un terzo dei giovani tra i 15 e i 29 anni non riesce a trovare un lavoro (in Italia il tasso di disoccupazione giovanile è al 25%). I disoccupati con laurea sono in Italia il 6,7% a fronte del 10% nel Mezzogiorno. Un sistema imprenditoriale già fragile e rarefatto, se messo a confronto con quello del Centro-Nord, è stato sottoposto negli ultimi anni a un processo di progressivo smantellamento, costellato da crisi d’impresa molto gravi come quelle dell’Ilva di Taranto e della Fiat di Termini Imerese. Si sono allargate le distanze sociali.
Il Mezzogiorno resta un territorio in cui le forme di sperequazione della ricchezza non diminuiscono, ma anzi si allargano. Il 26% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno è materialmente povero (cioè con difficoltà oggettive ad affrontare spese essenziali o impossibilitate a sostenere tali spese per mancanza di denaro). E nel Sud sono a rischio di povertà 39 famiglie su 100. Il persistere di meccanismi clientelari, di circuiti di potere impermeabili alla società civile e la diffusione di intermediazioni improprie nella gestione dei finanziamenti pubblici contribuiscono ad alimentare ulteriormente le distanze sociali impedendo il dispiegarsi di normali processi di sviluppo. Anche la scuola è un fattore di debolezza al Sud.
È, ancora oggi, per alcuni versi, in atto, l’incapacità del sistema educativo di accompagnare i processi di sviluppo attraverso la formazione di un capitale umano qualificato, contribuendo così a contrastare il disagio sociale ed economico della popolazione. Anche il progressivo e scarso funzionamento dei servizi sanitari negli ultimi cinque anni ha “costretto” il 17,1% dei residenti meridionali a spostarsi in un’altra regione per farsi curare, non fidandosi della qualità e della professionalità disponibili nella propria. Ecco, questo è il “quadro sociale”, attuale, del nostro Meridione. Ma come cittadini e cristiani non possiamo, non dobbiamo arrenderci davanti alle difficoltà. Papa Francesco domenica scorsa ha esortato con forza i giovani a “non lasciarsi rubare la speranza”.
Domenica è Pasqua. La speranza cristiana è il “sale” della vita. È dovere di tutti “organizzare e costruire la speranza” nel nostro bellissimo Sud, nonostante il buio della politica attuale. Dobbiamo credere che dopo la notte, è vicina l’aurora. Diceva Martin Luther King: “Il cammino è pieno di asprezze, ma nonostante le fatiche e le umiliazioni, io ho ancora un sogno. Sogno che i miei quattro bambini vivano in una nazione in cui non saranno giudicati da colore della pelle… Con questa speranza staccheremo, dalla montagna dell’angoscia, un pietra di speranza. Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme… sapendo che un giorno saremo liberi”.