Ordinanza del Tribunale: Francesco Giunta era candidabile, rigettato il ricorso alla legge Severino

Il Tribunale di Termini Imerese – Sezione Civile
riunito in Camera di Consiglio e composto dai Magistrati
dr.ssa Teresa Ciccarello Presidente relatore
dr. Giuseppe D’Agostino Giudice
dr. Laura Di Bernardi Giudice
letti gli atti
sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 09/01/2018;
OSSERVA
Con il ricorso introduttivo, Andrea Di Leonardo – premettendo che Francesco Giunta era stato proclamato sindaco del comune di Termini Imerese dall’ufficio centrale elettorale in data 28.6.17 – proponeva l’azione popolare prevista dall’art. 22 del d.l.vo n. 150 del 2011 al fine di far dichiarare la nullità dell’elezione del medesimo e la decadenza dalla carica, muovendo una serie di censure al predetto provvedimento dell’ufficio elettorale.
Segnatamente, deduceva che Francesco Giunta non avrebbe potuto candidarsi a sindaco e che la successiva elezione avrebbe dovuto essere dichiarata nulla, in quanto versava in una delle ipotesi di incandidabilità previste dall’art. 10 del d.l. vo n. 235/12 e, segnatamente, in quella prevista dalla lett. d), alla cui stregua non possono essere candidati alle elezioni comunali e non possono ricoprire la carica di sindaco “coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio diversi da quelli indicati nella lett. c)”, anche se la pena sia stata applicata in forza di una pronuncia resa ex art. 444 c.p.p., secondo quanto previsto dal successivo art. 15 del medesimo decreto legislativo.
Al riguardo, il ricorrente rilevava come Francesco Giunta avesse riportato una condanna a mesi sedici di reclusione con la sentenza di patteggiamento n. 325/13 emessa dal GIP presso il Tribunale di Termini Imerese, passata in giudicato il 25.11.14, per i delitti di cui agli artt. 640 comma 2 n. 1 c.p. in continuazione con i reati previsti dagli artt. 61 n. 2, 480 e 493 c.p., nella sua “qualità di mandatario per conto della Società Italiana Editori Autori (S.I.A.E.)”.
Trattandosi di condanna per fatti commessi con violazione dei doveri inerenti ad un ente pubblico economico quale è la SIAE, il Giunta non avrebbe potuto candidarsi e, in ogni caso, non avrebbe dovuto essere proclamato sindaco.
Più in particolare, il Di Leonardo si doleva del fatto che l’ufficio elettorale avesse reputato la condanna ex art. 640 comma 2 n. 1 c.p. non ostativa alla proclamazione, in assenza della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 c.p., sostenendo, viceversa, che l’avere il Giunta commesso il delitto nella qualità di mandatario della SIAE avrebbe dovuto rendere il suddetto incandidabile.
Evidenziava, inoltre, come il riconoscimento dell’aggravante prevista dall’art. 61 n. 2 c.p., comportando la correlazione tra i delitti di truffa e quelli di falso – ritenuti anche dallo stesso ufficio elettorale come integranti l’ipotesi di cui all’art. 10 lett. d) d.l.vo 235/12 – avrebbe dovuto determinare la mancata proclamazione del Giunta.
Sul punto, rimarcava come la ratio della anzidetta disposizione normativa fosse quella di ricomprendere nell’ambito dell’area del divieto i comportamenti tenuti in violazione dei doveri e con abuso dei poteri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, resa evidente dall’applicazione della aggravante del nesso teleologico.
Rilevava, altresì, come la conferma dell’interpretazione anzidetta dovesse ricavarsi dal riconoscimento da parte del giudice della condanna penale del vincolo della continuazione, sintomatico del collegamento tra i comportamenti criminosi posti in essere tutti con abuso di poteri e violazione dei doveri inerenti una pubblica funzione o un pubblico servizio.
Infine, sottolineava l’erroneità del provvedimento dell’ufficio elettorale nella parte in cui aveva enucleato la pena da imputarsi ai delitti di falso, che risultava inferiore a quella di mesi sei prevista dal d.l. vo n. 235/12, dovendosi, per converso, reputare unica la pena inflitta per tutte le fattispecie concorrenti nel delitto continuato.
Sulla scorta di tali premesse, chiedeva che venisse dichiarata nulla la proclamazione di Francesco Giunta, che questi venisse dichiarato decaduto dalla carica di sindaco e che venisse ordinata la ripetizione del turno di ballottaggio tra il secondo e il terzo dei candidati a sindaco.
Si costituiva Francesco Giunta, il quale chiedeva il rigetto delle domande.
In particolare, evidenziava come, in presenza di un reato continuato nel quale il giudice della cognizione non aveva indicato le pene per i singoli reati satellite, essa non poteva che determinarsi suddividendo la quota imputata alla continuazione per il numero dei reati ritenuti commessi ex art. 81 c.p..
Nel caso di specie, poiché i reati avvinti dal vincolo della continuazione erano sia delitti di truffa, sia delitti di falso, la parte di pena da ascriversi a questi ultimi era inferiore a quella di mesi 5 e giorni 10 di reclusione calcolata dall’ufficio elettorale – e, dunque, al di sotto della soglia dei sei mesi prevista dalla legge ai fini dell’incandidabilità – sicché correttamente non era stata ritenuta ostativa alla proclamazione.
Contestava, poi, le argomentazioni richiamate dal ricorrente in ordine alla natura unitaria dei delitti avvinti dal vincolo della continuazione, essendo quest’ultimo istituto fondato su una fictio iuris determinata dal favor rei, con la conseguenza che, ove l’unificazione si risolva in un danno per il condannato e non in un beneficio, debba operarsi la scissione del reato continuato.
Deduceva, poi, l’erroneità dell’interpretazione suggerita dal Di Leonardo in ordine alla natura di reato commesso con abuso dei poteri del delitto di cui all’art. 640 comma 2 n.1 c.p., in assenza dell’espressa contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n.9 c.p., essendo pacifica la natura di reato comune del delitto di truffa aggravata ai danni dello stato o di un ente pubblico.
Al riguardo, sottolineava la correttezza della decisione dell’ufficio elettorale, in quanto, in assenza della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 c.p., non si poteva reputare trasmissibile ai delitti di truffa la circostanza di aver commesso i falsi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio.
Infine, contestava la riconducibilità dei delitti di cui all’art. 480 c.p. all’ipotesi inabilitante.
Si costituivano il Ministero dell’Interno, la Prefettura, l’Ufficio elettorale territoriale, l’Ufficio centrale elettorale, la commissione elettorale e l’assessorato delle autonomie locali, i quali eccepivano il proprio difetto di legittimazione passiva.
Si costituivano Amoroso Anna, Bellavia Maria, Borgognone Antonio, Chiara Anna Maria Loredana, Di Blasi Giuseppe, Fullone Licia, Galioto Michele, Gelardi Francesco, Rodriquez Marcella, Speciale Michele e Lo Bianco Rosa, i quali aderivano alle difese spiegate dal sindaco in carica.
All’udienza del 17.10.17, al presente ricorso veniva riunito quello promosso da Vincenzo Fasone, Moscato Agostino, Cumbo Giuseppe, Di Lisi Salvatore, Curreri Salvatore, Piro Francesco, Taravella Vincenzo e Merlino Claudio, i quali chiedevano la declaratoria di decadenza del sindaco Francesco Giunta sulla scorta di argomentazioni analoghe a quelle proposte dal Di Leonardo, e, segnatamente, richiamando il ragionamento in tema di unicità del reato continuato e contestando le modalità di determinazione della pena per i delitti di falso effettuate dall’ufficio elettorale, in assenza di alcun riferimento contenuto nella sentenza di condanna.
Alla predetta udienza, il PM aderiva ai ricorsi riuniti, depositando memoria, nella quale censurava il provvedimento dell’ufficio elettorale, nella parte in cui aveva scisso il cumulo e nella parte relativa al calcolo della pena.
Inoltre, si doleva dell’erroneità della ricostruzione ermeneutica effettuata dal detto organo, che aveva ritenuto che l’ipotesi prevista dall’art. 10 lett. d) coincidesse con i delitti aggravati ex art. 61 n. 9 c.p..
In proposito, esponeva, infatti, che doveva escludersi il rinvio formale a quest’ultima norma, atteso che la legge Severino intendeva escludere dalla candidatura tutti i delitti caratterizzati dall’abuso delle funzioni o dalla violazione dei doveri.
Tanto premesso, deve, anzitutto, dichiararsi la contumacia del Comune di Termini Imerese, di D’Amico Pietro, di Minasola Lelio, di Terranova Maria, di Dispensa Nino, di Di Liberto Armando e di Sorce Pietro.
Ciò posto, va, poi, accolta l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dal Ministero dell’interno, dalla Prefettura, dall’Ufficio elettorale territoriale, dall’Ufficio centrale elettorale, dalla commissione elettorale e dall’assessorato delle autonomie locali, atteso che i giudizi elettorali vanno promossi nei confronti dell’Amministrazione cui vanno giuridicamente imputati i risultati della consultazione elettorale oggetto della lite, e non nei riguardi di quella statale o degli organi, quali gli uffici elettorali, che abbiano svolto compiti nel procedimento elettorale, che sono destinati a sciogliersi subito dopo la proclamazione degli eletti e che non sono portatori di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento dei propri atti (cfr. al riguardo Tar Lazio n. 3478/17).
Nel merito, i ricorsi non meritano accoglimento.
Ed invero, devono, anzitutto, richiamarsi i principi di diritto che informano il giudizio elettorale.
Al riguardo, va, in primo luogo, ricordato che, a mente dell’art. 51 della costituzione, “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.
Pertanto, il diritto di elettorato passivo è un diritto soggettivo perfetto, riconosciuto ad ogni cittadino con i caratteri dell’inviolabilità, che può essere limitato dal legislatore, soltanto al fine di realizzare altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadino e cittadino, qualunque sia la Regione o il luogo di appartenenza.
In proposito, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che l’eleggibilità è la regola e l’ineleggibilità l’eccezione, sicché le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (cfr. Corte Cost. sent. n. 141/96) e la decadenza dalla carica non è un effetto penale della condanna, ma la conseguenza del venir meno di un requisito soggettivo per il mantenimento alla carica medesima.
La Corte di Cassazione ha poi precisato quale tipo di sindacato possa operare il Tribunale ordinario in sede di giudizio elettorale.
Segnatamente, nella vigenza della precedente disciplina sul punto recepita dal D.l. vo Severino, la Corte ha chiarito che, in tema di elettorato passivo, la valutazione rimessa al giudice civile dall’art. 58, comma primo, lettera c), del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 – il quale (come l’attuale art. 10 lett. d) d.l.vo 235/12) prevede, tra le cause ostative, fra l’altro, alla candidatura alle elezioni comunali e, comunque, a ricoprire la carica di sindaco, la condanna con sentenza definitiva alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio – deve essere compiuta sulla base del solo accertamento contenuto nella sentenza penale di condanna, senza potestà per il giudice del processo elettorale di esperire ulteriori indagini di merito e neppure di reinterpretare né la fattispecie contestata, né la decisione assunta dal giudice penale, entrambe ponendosi come dato storico sul quale, e per effetto del quale, la causa inabilitante opera “ipso iure” sin dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (cfr. Cassazione civile, Sez. 1, 14/02/2004, n. 2896).
Deriva da quanto precede che le ipotesi di inabilitazione elettorale sono tipiche e non sono suscettibili di essere interpretate estensivamente, incidendo su un diritto soggettivo, che può essere limitato soltanto dalla legge.
Al riguardo, il legislatore, al fine di allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia, ha indicato specificamente alle lettere a), b) e c) del decreto Severino le condanne ostative alle cariche politiche degli enti locali.
Al medesimo fine, ha previsto alla successiva lett. d) una norma di chiusura, volta a ricondurre nell’ambito della incandidabilità e della decadenza tutti quei comportamenti che, pur non essendo specificamente previsti dalla precedente lett. c), finiscono ugualmente per porre il loro autore nella condizione di non poter assumere o mantenere la carica elettiva.
Tuttavia, affinché venga in rilievo tale indegnità, è necessario che il soggetto abbia riportato una condanna alla pena della reclusione superiore a sei mesi per un fatto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri attinenti ad una pubblica funzione, che possono venire indifferentemente in rilievo come componenti materiali di una fattispecie criminosa autonoma o come semplici circostanze aggravanti di un reato (cfr. Cassazione civile, Sez. 1, 09/07/2003, n. 10776).
Da ciò discende che il legislatore – contrariamente a quanto argomentato dal PM – non ha indicato nominativamente l’art. 61 n. 9 c.p., perché ha voluto ricomprendere nel novero dei comportamenti ostativi alle cariche pubbliche sia i delitti che contengono tra i propri elementi costitutivi l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri, sia quelli soltanto aggravati da tali elementi (cfr. Cassazione civile, Sez. 1, Sentenza n. 2065 del 10/03/1999, che ha ritenuto ostativo ex art. 10 lett. d) cit. il delitto di cui all’art. 328 c.p., reato commesso dal pubblico ufficiale, avente tra i propri elementi costitutivi l’abuso dei poteri, ma non incluso nel catalogo di cui alla precedente lett. c) dell’art. 10).
Alla stregua delle considerazioni che precedono, nel caso di specie, deve escludersi che i delitti di truffa rientrino tra le ipotesi inabilitanti.
Ed invero, posto che occorre prendere le mosse dalla pronuncia di condanna come dato storico, avendo il resistente riportato una condanna ex art. 444 c.p.p., la motivazione della sentenza, essendo piuttosto scarna, non offre al Tribunale elementi di fatto concreti da valutare, se non il capo di imputazione e la valutazione delle circostanze effettuata dal giudice della cognizione.
Peraltro, il Collegio non può rivalutare il merito, giungendo all’affermazione che la violazione dei doveri sia stata contestata in fatto, non essendo stato tale apprezzamento effettuato dal giudice penale.
Ebbene, né l’esame delle imputazioni, né quello delle circostanze consente di ritenere integrata l’ipotesi inabilitante prevista dall’art. 10 lett. d) del d. l. vo n. 235/12.
Infatti, essendo pacifica la natura di reato comune della truffa, del quale l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri non sono, infatti, elementi costitutivi, lo scrutinio si sposta soltanto sul piano delle circostanze.
Al riguardo, si osserva, tuttavia, come, pur essendo pacifica la natura di ente pubblico economico della SIAE (cfr. Cassazione civile, Sez. U, 15/07/1993, n. 7841), la truffa sia stata contestata al Giunta nella mera qualità di mandatario della SIAE e senza l’ulteriore specificazione di aver posto in essere le condotte violandone i relativi doveri ex art. 61 n. 9 c.p..
In proposito, deve, infatti, ricordarsi come la giurisprudenza abbia chiarito che, perché si configuri la predetta aggravante, è necessario che la commissione del fatto sia stata quanto meno facilitata od agevolata dall’esercizio dei poteri o dalla violazione dei doveri, non essendo sufficiente che in capo a chi commetta un qualsivoglia reato sussista la veste di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, ostando ad una lettura di segno contrario il dato letterale della norma, che richiede non a caso un “abuso” dei poteri o una “violazione” dei doveri (cfr. in motiv. Cassazione penale, Sez. 3, n. 44452 del 25/9/2015, Amendola).
Deriva da quanto precede che corretta si appalesa la decisione dell’ufficio elettorale che ha escluso la ostatività del delitto ex art. 640 c.p. in assenza dell’espressa contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61. n. 9 c.p. e in considerazione della circostanza che la stessa non fosse stata neanche ritenuta in fatto dal giudice della cognizione – il quale, peraltro, non avrebbe accolto la richiesta di applicazione della pena proposta dalle parti, ove avesse reputato sussistente la predetta aggravante, senza che di essa si fosse tenuto nel giudizio di bilanciamento delle circostanze -.
Del pari, non può ritenersi estesa ai delitti di truffa la violazione dei doveri riconosciuta nei delitti di falso, in forza del riconoscimento dell’aggravante del nesso teleologico, in assenza di una espressa previsione normativa in tal senso, che amplierebbe le ipotesi di incandidabilità oltre i casi previsti dalla legge.
Osserva, inoltre, il Collegio come infondate appaiano le argomentazioni formulate dai ricorrenti e dal PM, alla cui stregua la natura continuata dei delitti ascritti al Giunta integrerebbe le ipotesi di indegnità di cui alla lett. d) del d.l. vo n. 235/12.
Sul punto, invero, condivisibili risultano le considerazioni espresse dal sindaco in carica e dai resistenti che hanno aderito alle difese spiegate dal Giunta.
Infatti, l’istituto della continuazione è ispirato al favor rei e mira ad attenuare il rigore del cumulo materiale delle pene, con la conseguenza che, ove si risolva in concreto in un danno per il condannato, si procede allo scioglimento del cumulo, onde consentire al medesimo di accedere ai benefici connessi ai singoli delitti (cfr. Cassazione penale, Sez. 1, 29/11/2016, n. 52182).
La Suprema Corte, peraltro, si è espressa in termini analoghi in tema di diritto di elettorato attivo (cfr. Cassazione civile, Sez. 1, 22/07/1977, n. 3268).
Da ultimo, vanno disattese le difese spiegate dai ricorrenti in ordine all’erroneità della determinazione della quota di pena da imputarsi ai delitti di falso.
Al riguardo, infatti, la giurisprudenza ha chiarito che, allorché il giudice del procedimento principale, nell’infliggere la pena per il reato continuato, non abbia provveduto all’individuazione degli aumenti per i reati satellite rilevanti per il calcolo dei termini di durata massima della custodia cautelare, applicata solo per essi o alcuni di essi, la lacuna debba essere colmata dal giudice investito della questione cautelare, che, con il limite dell’aumento complessivo di pena risultante dalla sentenza di condanna, deve determinare la frazione di pena riferibile a ciascuno dei reati in continuazione, ispirandosi a criteri che tengano conto della loro natura e oggettiva gravità, secondo l’apprezzamento fattone dal giudice di merito (cfr. Cassazione penale, S.U., 26/03/2009, n. 25956).
Ebbene, applicando il suddetto principio alla fattispecie in esame, è appena il caso di osservare come la quota pena di mesi 8 di reclusione – da ridursi di 1/3 ex art. 444 c.p.p. a mesi 5 e giorni 10 di reclusione – sia stata applicata per tutti i reati satellite pari a complessivi n. 38 delitti, sicché quella da imputarsi ai falsi risulta inferiore al limite di mesi 6 di reclusione previsto dalla legge Severino.
Da ciò discende che il criterio utilizzato dall’ufficio elettorale, pur non avendo tenuto conto degli ulteriori reati satellite ex art. 640 c.p., ha correttamente escluso la configurabilità dell’ipotesi inabilitante.
Nel rigetto dei ricorsi riuniti rimangono assorbiti i rilievi mossi dal Giunta in ordine alla riconducibilità dei delitti di cui all’art. 480 c.p. alla fattispecie disciplinata dall’art. 10 lett. d) del D.l.vo Severino, peraltro, infondati (cfr. all’uopo Cassazione civile, Sez. 1, 13/01/1993, n. 3098).
Tenuto conto della natura delle questioni trattate e dell’assenza di precedenti specifici, deve disporsi la compensazione integrale delle spese tra le parti.
PER QUESTI MOTIVI
dichiara la contumacia del Comune di Termini Imerese, di D’Amico Pietro, di Minasola Lelio, di Terranova Maria, di Dispensa Nino, di Di Liberto Armando, di Giuseppe Lucio Maria Preti e di Sorce Pietro;
dichiara il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’interno, della Prefettura, dell’Ufficio elettorale territoriale, dell’Ufficio centrale elettorale, della commissione elettorale e dell’assessorato delle autonomie locali;
rigetta i ricorsi riuniti;
compensa integralmente tra le parti le spese di lite;
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
Così deciso in Termini Imerese, in data 9.1.18

Il presente atto viene redatto su documento informatico e sottoscritto con firma digitale dal giudice Teresa Ciccarello, in conformità alle prescrizioni del combinato disposto dell’art. 4 del D.L. 29/12/2009 n. 193, conv. Con modifiche dalla L. 22/12/2012, n. 24, e del decreto legislativo 7/3/2005 n. 82, e succ. mod. e nel rispetto delle regole tecniche sancite dal d. m. del Ministro della Giustizia del 21/2/2011 n. 44.

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