A che serve l’ondata di scioperi?

E’ iniziata la stagione degli scioperi. Dopo il martedì nero del trasporto pubblico il 2 ottobre, il 12 ottobre tocca a scuola e poste, il 13-14 ai treni, il 26 agli aerei. Il 20 ottobre ci sarà la manifestazione nazionale Cgil a Roma (ma è un sabato), prima della nuova astensione del 16 novembre, sempre nel trasporto pubblico locale, che speriamo non sia la brutta copia del 2 ottobre.

Lo sciopero è un diritto individuale gestito collettivamente, usava dire il padre dello Statuto dei lavoratori, Gino Giugni, ma il diritto soggettivo costituzionale si attua nell’ambito delle leggi che lo regolano (articolo 40 della Costituzione), che oggi riguardano in sostanza però solo alcune salvaguardie nei servizi pubblici e nei tempi di preavviso. Mentre anche in Cina incrociano le braccia gli operai della Foxconn (quelli che realizzano gli i-Phone), in Italia lo strumento, una conquista costata morti, denunce e licenziamenti, sembra aver perso smalto ed efficacia, assumendo le forme della ritualità. La prova è il fatto che, per far conoscere il dramma del licenziamento, operai di piccole e grandi aziende, ma anche qualche imprenditore, sono dovuti salire su torri e campanili o scendere nelle profondità delle miniere per gridare al mondo la loro disperazione. Nessuno può ragionevolmente pensare di bloccare un diritto iscritto nel Dna della nostra repubblica, ma una riflessione va fatta. A partire da chi indice uno sciopero. Basta infatti la dichiarazione di un sindacatino nella frantumata area di servizi e trasporti a creare un effetto-annuncio (per i cittadini, salvo a volte annullarlo, ma la frittata è fatta) e un effetto-domino (l’adesione di lavoratori non iscritti o iscritti ad altri sindacati, che a spese loro si prendono qualche ora di messa in libertà). Il diritto di convocazione di uno sciopero è un fatto di rappresentatività e responsabilità, ciò non toglie che l’astensione sia uno dei diritti indiscutibili dei singoli. Forse ci vuole prudenza e una frequenza comparabile con la gravità della situazione denunciata. Lo sciopero va riportato alla funzione di «extrema ratio», arma finale dopo infruttuosi tentativi di conciliazione e arbitrato. Lo sciopero politico non va toccato, ma a volte l’impressione è che le astensioni siano una tappa della protesta più che il dovere di una proposta. L’opinione pubblica è solidale con gli scioperi contro le dittature. E’ sensibile agli scioperi contro la perdita del lavoro, che registrano consenso, spesso solo virtuale, con gli scongiuri scaramantici per non subirne l’esperienza. Sono più compresi gli scioperi nell’industria di quelli nei servizi: questi toccano la vita di ciascuno, non come lavoratori, ma come cittadini; qui spesso avviene il rovesciamento delle opinioni e le indulgenze diventano anatemi.

La crisi rivela un’eterogenesi dei fini: si sciopera per fare danno e per bloccare la produzione, ma si sa che in certe aziende in difficoltà oggi non pagare una giornata di lavoro assomiglia a una benedizione. La grammatica degli scioperi deve anche recuperare senso e fantasia, un nuovo alfabeto, che non può non fare i conti con la società mediatizzata. In passato abbiamo avuto scioperi a singhiozzo, a scacchiera, a gatto selvaggio, scioperi bianchi e a oltranza. Oggi c’è chi propone scioperi via Internet (i nerworker) o virtuali (si lavora con raccolta fondi e si devolve il ricavato a una causa) e, senza arrivare ai girotondi americani con fischietti e cartelli, c’è già chi pratica flash mob al posto dei sit in, happening aperti per denunciare una stortura. Quel che manca a volte è l’informazione. I cittadini non conoscono le ragioni delle astensioni: serve trasformare uno sciopero in un momento di conoscenza e anche qui la fantasia non manca. Quella che ancora manca è l’universalità del diritto: non tutti possono scioperare; i 4,5 milioni di precari, temporanei e collaboratori che ci provano rischiano il posto. Il diritto di sciopero è prerogativa dei dipendenti che hanno il lavoro. Ma non è un privilegio corporativo. Specie quando ad astenersi, come nel caso degli autoferrotranvieri, sono lavoratori che aspettano da cinque anni (21 dicembre 2007) il rinnovo del contratto nazionale di lavoro.

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