25 anni dopo Giovanni Falcone: la memoria che abbiamo tradito

Quando noi che curiamo questo Blog ci siamo interrogati sulla maniera in cui ricordare Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, la terribile strage di Capaci venticinque anni dopo, immediatamente è affiorata nella nostra memoria il fotogramma, uno degli ultimi, di un famoso film di Steven Spielberg, interpretato da Tom Hanks e Matt Damon cioè “salvate il soldato Ryan”. Colpito a morte per portare a termine la missione, cioè rispedire in vita negli Stati Uniti l’ultimo dei fratelli sopravvissuti alla carneficina della guerra, il capitano John Miller chiama a sé il giovane Ryan e a un orecchio gli sussurra un sintetico “ordine morale”: “Meritatelo”. Quell’ordine di Miller l’abbiamo trasformato in una domanda: Ce lo siam meritati? Abbiamo onorato con le nostre scelte e i nostri comportamenti quel sacrificio o ci siamo limitati agli applausi cioè al trito e anche un po’ sguaiato rito con cui spesso accompagniamo momenti della nostra vita collettiva (come i funerali) che dovrebbero essere dedicati, al contrario, al silenzio, alla meditazione e, semmai, anche a un approfondito esame di coscienza? Abbiamo dato seguito agli impegni moralmente assunti davanti a quelle bare o, placato il suono della retorica cerimoniale, siamo tornati alle antiche, radicate e invincibili abitudini?

Le risposte, va detto con sincerità, non sono confortanti. I nati in quei giorni, hanno compiuto o compiranno nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, venticinque anni; alcuni di loro si sono laureati e molti sbarcano il lunario grazie a un contratto precario. Le cose per loro sono cambiate? Sì, certo. In peggio: la precarietà è sopportabile quando ha caratteri brevi e transitori, ma in questo arco di tempo è diventata una condizione esistenziale, quindi duratura.

Tanti bravi magistrati continuano a combattere, anche nel segno di Falcone e Borsellino, contro le mafie. Hanno vinto delle battaglie ma non la guerra. Per loro colpa o inadeguatezza? No, semmai per colpa di un ambiente che con le mafie accetta di convivere (per necessità o, molto più spesso, per formazione culturale o, sarebbe meglio dire, sottoculturale). La criminalità è diventata sempre più pervasiva, ha risalito la penisola, è penetrata profondamente nel mondo dell’economia, della finanza, della produzione. Ha incrementato la sua fetta di Pil sordido e sommerso anche in questo lungo periodo di crisi; ha superato la fase in cui cercava sponde nella politica perché ora è approdata a un nuovo livello: diventare, “farsi” direttamente politica scegliendosi gli “uomini al servizio”, veri e propri maggiordomi ricchi di ambizione e privi di dignità.

In quell’ormai lontano 1992 la Prima Repubblica, nata nel fuoco della guerra attraverso lo scatto di orgoglio resistenziale (l’unico che insieme al Risorgimento può ispirarci una certa fierezza), stava morendo per soffocamento sotto la valanga del malaffare. È migliorata la situazione? Non si direbbe. Abbiamo pensato che per dare qualità alla gattopardiana trasformazione bastasse fare riferimento a una identificazione numerica: la Seconda Repubblica. Ora annunciamo la Terza e fra qualche tempo forse anche la quarta. Persino uno dei protagonisti di quell’epoca, il giudice Pier Camillo Davigo, ha riconosciuto (riconoscendo in qualche maniera anche il suo personale fallimento), che dal punto di vista della corruzione la situazione non è migliorata ma decisamente peggiorata. Le stragi apparvero come il momento finale di un drammatico processo di declino e degrado e tanti coltivarono l’illusione che di lì si potesse soltanto risalire. È rimasta un’illusione.

Dal punto di vista dell’etica pubblica e privata, collettiva e familiare (concetto molto più complesso della semplice evocazione demagogica dell’onestà a scopo politico-elettorale) continuiamo a essere cedevoli, fedeli al principio sancito nel famoso detto “calati junco ca passa la china”. Forse ancor più incentivati in questa cedevolezza dal successo dei nuovi mezzi di comunicazione, dei social media che all’impoverimento della sostanza hanno aggiunto l’imbarbarimento della forma.

Abbiamo contratto con Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina un debito più elevato di quello che affligge lo Stato Italiano: non abbiamo nemmeno pagato gli interessi e possiamo ritenerci in default. Qualunque celebrazione appare ipocrita a fronte del rifiuto delle classi dirigenti (ma anche di tutti noi, semplici cittadini) ad avviare una vera, silenziosa ma implacabile rivoluzione morale. Sino a quel momento sarà sempre valida l’invettiva di Dante Alighieri: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincia ma bordello!” Valida ma scarsamente consolatoria.

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