Reportage: Termini, l’inutile sacrificio

Per vedere la fabbrica Fiat di Termini Imerese basta andare in paese, scendere a Termini bassa, la parte del centro storico, affacciarsi sul porto e guardare dritto sul lungomare Cristoforo Colombo: le luci dello stabilimento sembrano formare una costellazione di stelle pronte a cadere e spegnersi da un momento all’altro.
IL PELLEGRINAGGIO ALLA FIOM. Ma per conoscere chi in quella fabbrica si è già spento, dopo oltre 30 anni di lavoro, è sufficiente fermarsi all’ingresso di Termini alta, nella sede della Fiom.
È tutto un via vai di operai Fiat e dell’indotto. Entrano ed escono da una piccola stanza dove il segretario Roberto Mastrosimone, doppi occhiali, auricolare del cellulare in un orecchio e cornetta del telefono nell’altro muove nervosamente il mouse del computer. Sta organizzando il viaggio della speranza, l’ennesimo. Destinazione Roma, ministero dello Sviluppo, 5 ottobre, ore 11.
LA SPEDIZIONE ROMANA. Al tavolo fissato per parlare di Termini Imerese ci vorrebbero andare tutti. «Ma salire a Roma costa», dice a Lettera43.it Mastrosimone. Così su 2.200 lavoratori (1.400 operai Fiat, 135 Magneti Marelli e il resto dell’indotto) a prendere quel treno sono solo in 50.
Molti di loro però passano ugualmente dalla sede del sindacato per vedere come procede l’organizzazione del viaggio, sapere chi parte, farsi due chiacchiere, e sentirsi ancora in lotta, ancora vivi. «Ci vogliono far morire piano piano, allungano i tempi della nostra agonia, ma non ci danno nessuna medicina per guarire», dice Giuseppe, da 35 anni operaio Fiat, ora in cassa integrazione straordinaria (Cigs).
LO SCOGLIO DELLA RIFORMA FORNERO. Lui a Roma ci va perché vuole sapere subito cosa dirà il governo. «Sono uno dei 640 pre pensionati che Fiat ha chiesto in cambio di un secondo anno di Cigs», racconta. Ma quel patto fatto con l’azienda prima che arrivasse il governo tecnico si è scontrato con la riforma delle pensioni. «Il ministro Fornero», aggiunge, «deve dirci che ne sarà di noi».

La responsabilità del ministero: «Tutti sapevano, lo Stato deve pagare»

Ormai tutti sanno che non ci sono nuove proposte per riaprire lo stabilimento. «Al massimo ci diranno che nel decreto dei 55 mila esodati sarà inserita una postilla per includere anche i lavoratori di Termini, che andranno in mobilità dal 2014, dopo il secondo anno di cassa», dice Giuseppe. E forse si riuscirà a ottenere un altro anno di Cigs anche per i lavoratori dell’indotto che non erano riusciti a raggiungere la quota di prepensionamenti richiesta. «Oggi sono i più esposti», mette in chiaro Mastrosimone.
SI VIVE DI AMMORTIZZATORI SOCIALI. A Termini le speranze di una ripresa sono finite. Ci si accontenta di portare a casa qualcosa, di salvare il salvabile. La lotta non è più per il posto di lavoro. Qui il lavoro è diventato l’ammortizzatore sociale. E c’è chi non ha neanche quello.
Come Agostino Coniglio, 62 anni, 33 anni al servizio mensa della Fiat. Da giugno non riceve neanche l’assegno di cassa integrazione in deroga. L’azienda Pellegrini, circa 17 dipendenti, una delle tante dell’indotto non paga, «dice che non ha i soldi», sottolinea Coniglio mentre stringe i pugni per la disperazione. Intanto ha già due mesi di bollette arretrate e debiti da onorare.
IN QUATTRO CON 200 EURO. I 200 euro che la moglie guadagna come badante non bastano per mantenere una famiglia di quattro persone. «Io prendevo 500 euro di cassa integrazione e ora non mi danno neanche quella», dice mentre fissa il segretario della Fiom con le lacrime agli occhi.
IL DRAMMA DELLE «SCAPPATE DI CASA». Poi ci sono le cosiddette «scappate di casa», come le chiamano gli operai. Sono le piccole aziende dell’indotto con sei-sette dipendenti. «Hanno licenziato tutti i lavoratori e ora queste persone da settembre non hanno più gli ammortizzatori sociali», spiegano i lavoratori.
I soldi però non bastano nemmeno quando arrivano le 800 euro di cassa integrazione Fiat. Vincenzo Polizzi, 37 anni, operaio e delegato Rsu Fiom ha due bimbe e una moglie che è stata licenziata nel 2008. Era una delle «madri della Ergom automotive», le 20 ragazze quasi tutte con figli assunte nel 2007 e mandate a casa nel 2008 quando l’azienda diventò Magneti Marelli.
I 2.200 LAVORATORI IN CASSA. Nel 2009, poi, arrivò l’annuncio: la chiusura di Termini Imerese entro il 2012. E la cassa integrazione per tutti i 2.200 lavoratori da fine 2011. Le istituzioni impotenti sono riuscite solo ad aprire il portafogli senza alcun progetto per il futuro.
E ora che i soldi sono finiti la situazione è disastrosa: la Regione Siciliana a metà anno aveva già speso tutti i fondi destinati agli ammortizzatori sociali.
PER GLI ASSEGNI SERVONO ALTRI 100 MLN. Per pagare gli assegni di cassa integrazione in deroga ai lavoratori siciliani servirebbero altri 100 milioni di euro. Ma le casse sono vuote. E le speranze ridotte ai minimi termini.
Le ultime i lavoratori le hanno spese per credere nell’accordo di programma fatto per salvare lo stabilimento: Invitalia incaricata dal ministero dello Sviluppo aveva selezionato una short list di imprenditori interessati a re industrializzare il sito. Ma «quelle liste sono state solo una presa in giro dello Stato e a Invitalia oggi andrebbero chiesti i danni», dicono gli operai all’unisono.
LA MANCANZA DI PROPOSTE VALIDE. La rabbia per essere stati illusi è grande. «Hanno dato fiducia a imprenditori che erano improponibili: tutti senza soldi né progetti validi», è l’accusa.
Quando qualcuno nomina il molisano Massimo Di Risio, l’ultimo che si era fatto avanti per rilevare lo stabilimento, la tensione sale: «C’ero io al tavolo del ministero quando Di Risio disse che aveva solo 16 milioni di euro a disposizione», spiega Vincenzo. «Davanti c’era anche il presidente di Invitalia Arcuri. Tutti sapevano e hanno fatto finta di niente. Dopo mesi ci hanno detto che aveva un buco di 60 milioni di euro, che non era affidabile. E lo Stato ora deve pagare».

Don Anfuso: «Siamo nelle sabbie mobili»

Aver perso tutto questo tempo ha consumato gli animi dei lavoratori. Ora non credono più a nessuno e a nulla. C’è spazio solo per la disperazione.
«RISCHIAMO DI AFFONDARE». A spiegare lo stato d’animo dei termitani è Francesco Anfuso, da 20 anni parroco della città. «Siamo nelle sabbie mobili e più ci agitiamo e ci facciamo prendere dal panico, più rischiamo di affondare».
È preoccupato don Anfuso. Sa che l’ennesimo incontro al ministero non porterà a nulla: «Ci sono troppe pentole che bollono su quel tavolo e sono tutte vuote», dice riferendosi alle vertenze industriali del Paese.
L’ASSENZA DI LUNGIMIRANZA. Oggi Termini Imerese è solo una delle tante e trovare una soluzione sembra impossibile. «Forse dovevamo fare qualcosa prima, nel 2003», aggiunge il parroco. «Negli anni del boom dello stabilimento dovevamo essere previdenti e pensare al futuro».
IL RISCHIO DESERTIFICAZIONE. Invece il benessere, il lavoro e un salario sicuro hanno fatto abbassare la guardia. Entrare e uscire ogni giorno dalla fabbrica ha fatto dimenticare il mare bellissimo che tutti avevano davanti agli occhi, e le sorgenti termali da cui prende il nome la stessa città: Thermae Himerae. «Non abbiamo guardato avanti e oggi resta solo il vuoto, temo la desertificazione di Termini», confessa padre Anfuso.

L’allarme: «In cinque anni da questa città se ne andranno tutti»

Della stessa cosa è convinto anche Alessandro, 30 anni, padre di famiglia e dipendente della Sea, azienda che a Termini lavorava per Enel.
Con il collega Gandolfo entra nella sede della Fiom con un foglio in mano: sono appena stati messi in mobilità insieme con circa 53 colleghi. «Io a questa città do al massimo cinque anni di vita, poi sarà il deserto», dice Alessandro esasperato. «Se ne andranno tutti».
E Gandolfo, 32 anni, sarà uno dei primi: «Ho un fratello che vive a Montecarlo, vado da lui, dice che lì si trova lavoro, studio il francese e vedo che succede, tanto qui è la morte».
DISOCCUPAZIONE E RABBIA. Ma non tutti hanno il coraggio e la possibilità di fare le valigie. «Molti giovani hanno appena messo su famiglia, dove vanno al Nord? Il lavoro ora non si trova neanche lì», aggiunge il parroco che ogni giorno riceve visite strazianti. «Le banche minacciano i negozianti debitori, i cassintegrati non campano e chi lavora in nero alimenta la rabbia di chi un impiego non riesce a trovarlo e non ha neanche il sussidio».
«SITUAZIONE GESTITA IN MODO AMBIGUO». Una spirale pericolosa che porta i cittadini ad avvitarsi sempre di più su se stessi. «Lo Stato e la Regione non hanno voluto che un’altra casa automobilistica venisse qui, è ormai chiaro», dice Giuseppe, che non riesce ad accettare la chiusura della sua fabbrica. «La situazione è stata gestita in maniera troppo ambigua».
RITARDI E PROMESSE DISATTESE. Troppi ritardi, troppe promesse non mantenute. Come quella di realizzare l’interporto per ammodernare il polo industriale di Termini che un tempo era un fiore all’occhiello del consorzio Asi di Palermo, il più grande del Mezzogiorno.
E così chi non capisce si rifugia nei ricordi. «Qui a Termini si vive del passato», continua Giuseppe. «Era bello quando c’era Fiat».
Ma Fiat non c’è più e il paese sembra destinato a scomparire insieme con l’ultimo modello di Lancia Ypsilon prodotto nello stabilimento.
«Stanno chiudendo tutti, sopravvivono solo il mercato rionale e i discount», fa notare Andrea, da 33 anni dipendente di Ssa, azienda dell’indotto che si occupava delle pulizie nello stabilimento di Termini. «Oppure i compro oro», aggiunge Lina, moglie di un operaio Fiat.

La crisi di un’intera comunità

Basta fare una passeggiata nella via del centro per capire che la crisi non è solo quella degli operai. Perché se a sparire sono state 2.200 buste paga, i negozi, i ristoranti, i locali che avevano proprio quei lavoratori come clienti oggi non guadagnano più.
«Con 800 euro al mese cosa vuoi comprare?», si lamenta Piero Scaletta, 33 anni. «Io in fabbrica ne guadagnavo il triplo», ricorda Giuseppe, «ora non posso fare nulla».
Solo i bar e le piazzette sono pieni di gente. La sera soprattutto. Gli uomini si incontrano con gli ex colleghi e rimangono ore e ore a chiacchierare. «Molti si vergognano di tornare dalle loro mogli senza niente in mano», spiega don Anfuso.
LA PIAGA DEL LAVORO NERO. La maggior parte di loro però qualcosa lo porta sempre a casa. Perché a Termini il vero lavoro è in nero. Chi non vuole perdere la cassa integrazione ma non riesce a campare con 800 euro al mese cerca di arrotondare.
«Mi arrangio», racconta un operaio Fiat che vuole rimanere anonimo. Ha due figli piccoli e una moglie disoccupata. Così quando un amico gli ha proposto un lavoro nella sua attività commerciale ha accettato. «Ho paura che qualcuno faccia la segnalazione e mi tolgano la cassa, ma solo con quella non tiro avanti», ammette. «Se trovassi un lavoro sicuro non lo farei e lascerei il posto ad altri più disagiati di me».
IL MIRAGGIO DI UN CONTRATTO. Lavorare in nero è un’onta che tutti sopportano in silenzio, consapevoli del danno che fanno agli altri e anche a se stessi. «Sono sempre a rischio, se mi faccio male non sono assicurato, se rompo qualcosa devo ricomprarla e se sto male non mi pagano», spiega l’operaio. Racconta di aver anche provato a trovare un lavoro in regola. Ma le aziende sono tutte chiuse: Cipro Gest, BlueBoats, Biennesud.
LA GUERRA TRA POVERI. La guerra tra poveri a Termini è iniziata da mesi. Ma nessuno sa come uscirne.
Alessandro Albanese, presidente di Confindustria Palermo, ha proposto di permettere ai lavoratori in cassa integrazione di poter lavorare presso le aziende che ancora riescono a stare in piedi, senza però perdere l’assegno. «Basterebbe sospenderla per il periodo in cui lavorano e poi riattivarla», suggerisce. «In questo modo non perderebbero il contatto con il mondo del lavoro, l’azienda potrebbe avvalersi della loro professionalità e potrebbero nascere collaborazioni proficue anche per il futuro».

La rabbia di lavoratori e imprenditori contro la politica

Con una moglie disoccupata e quattro figlie, di cui una non vedente, Andrea usufruisce della legge 104, è in cassa integrazione e da cinque mesi non percepisce più l’assegno.
«L’azienda dice che non ha soldi», racconta. «E io cosa faccio? Rubo?», dice con l’amaro in bocca e un sorriso sarcastico. Per Andrea è difficile anche scherzare. «Ormai chiedo soldi a tutti, agli amici, ai colleghi, ho un sacco di debiti».
«UNA TERRA ABBANDONATA». Del futuro non si parla, perché non c’è. Così come di politica: «I nostri rappresentanti non vogliono far crescere quest’Isola, è chiaro. Ma noi che facciamo? Ci ribelliamo? No, noi pecore siamo e pecore saremo», urla Andrea.
Anche a Termini Imerese riecheggia il solito luogo comune che dipinge i siciliani come un popolo incapace di comandare. Ma un moto di stizza assale Andrea: «In parlamento abbiamo 62 deputati siciliani che non hanno fatto niente per la loro terra, dove hanno preso i voti».
«PREVALGONO GLI INTERESSI DI PARTE». La politica rappresenta il minimo comune denominatore della rabbia siciliana. Accomuna imprenditori e lavoratori. «I politici locali hanno fatto molti sbagli in Sicilia», afferma Albanese che, oltre alla carica in Confindustria, dirige una piccola azienda di arredi nella zona industriale di Termini Imerese. «Sono intervenuti nelle scelte industriali con un tipo di ‘mediazione’ che spesso era più dettata da interessi di parte che dall’interesse pubblico».
IL CAPITALISMO CLIENTELARE. È la cosiddetta politica clientelare che ha contagiato il capitalismo, cercando di plasmarlo a sua immagine e somiglianza.
Eppure c’è chi ancora ci crede. «Ora che Fabbrica Italia non c’è più, la politica deve fare qualcosa per far rientrare in gioco anche Termini. Eravamo stati sacrificati in nome di quel progetto ma le promesse non sono state mantenute», ammette Piero, tuta blu Fiat.
I 20 miliardi di euro messi sul piatto da Sergio Marchionne avevano fatto chiudere molti occhi e messo a tacere tante coscienze. E Termini era stata l’agnello sacrificale da immolare per garantire un futuro italiano alla Fiat.
«SERVE UNO SCATTO DI ORGOGLIO». Ad appellarsi ai politici è anche don Anfuso: «Devono tendere la mano a questo territorio e aiutarlo a rialzarsi», dice. «Ma anche noi dobbiamo avere uno scatto di orgoglio e guardarci intorno, imparare a sfruttare questo patrimonio ambientale, artistico e culturale che abbiamo».
Insomma non tutto è perduto: «Se Fiat ce la possono togliere, quello che è nostro a noi rimane. Assieme alla dignità».

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