Festeggiare il Primo maggio. Anche se il lavoro lo si è perso o lo si perderà. Tre storie, tre esempi di come in Italia il lavoro stia diventando un miraggio. Da Sud a Nord, uomini e donne combattono per averlo. Con dignità e passione.
Andrea Ingrassia, 42 anni, Palermo In piazza ieri. In piazza oggi. Ieri davanti al Municipio di Termini Imerese, stamattina davanti alla fabbrica «abbandonata dalla Fiat», cambiando nome alla via che lo ospita (da via Giovanni Agnelli a via Primo maggio). Andrea lavorava alla Lear, multinazionale che costruisce sedili per auto, «con vari nomi, da 23 anni, dal 1989». Come tutto l’indotto Fiat di Termini Imerese (600 lavoratori «ormai diventati 450») è orfano del Lingotto. «La Fiat è scappata e ci ha messo in mezzo alla strada». Per lui sarà un Primo maggio «triste»: «Se non c’è chi costruisce le macchine per noi non c’è lavoro». «Dopo due anni e mezzo di trattative complicate» proprio in questi giorni sta diventando a rischio il passaggio dello stabilimento a Dr motor, quel Di Risio che assembla pezzi di macchine provenienti dalla Cina e con l’acquisizione sembra aver fatto «il passo più lungo della gamba» e non convince , con il suo progetto , le banche che dovrebbero finanziarlo tanto da costringere l’advisor (Invitalia) , scelto da governo e Regione , a ripescare alternative industriali improbabili (anche se ieri Invitalia ha precisato che si tratterebbe di partner che vogliono aiutare Di Risio). «Noi a Di Risio non abbiamo mai creduto molto, ma siamo stati costretti ad accettare la riduzione del danno: con l’accordo di dicembre almeno avevamo messo in sicurezza i prepensionati e c’era la prospettiva che se le cose fossero andate bene anche alcuni di noi dell’indotto potevano entrare , anche perché se non riducono del 30 % i lavoratori non avremo il secondo anno di cassa integrazione». Andrea prende 830 euro al mese e ha due figli («Valentina di 13 anni che canta e vorrebbe fare il conservatorio e Giulio di 5 anni»), ma «in questa situazione c’è disperazione, la paura di non poter parlare di futuro ai propri figli». Nel 2008 anche molti operai hanno fatto il passo più lungo della gamba: «La Fiat e le istituzioni avevano firmato un accordo di rilancio, ne conservo ancora una copia, ma in quel momento ci hanno beffati due volte. Certezza del posto e prospettive di espansione sono sparite nel giro di pochi mesi. E io, come tanti, ho comprato casa con un mutuo che oggi faccio fatica a pagare, anche se ho la fortuna di avere mia moglie che lavora». Andrea, come tutti i suoi colleghi, sa «che ci sarà ancora da lottare ma, nonostante le contrapposizioni giovani-anziani e fra i sindacati, finora siamo sempre stati uniti e questa sarà la nostra forza».
Cristiana Patriarca, 44 anni, Roma «Mi dico che sono come Guardiola: ho preso un anno sabbatico». Cristina prova a scherzare, a fermare le lacrime e il singhiozzo. Le riesce a tratti. Da qualche settimana il deposito di vini a Tor Vergata, periferia di Roma, per cui lavorava ha chiuso. «È stato comprato da Scarpellini, grande palazzinaro che forse ci sta speculando come ha fatto in tutto il quartiere». La Gruppo Italiani Vino, grosso gruppo di Verona «azienda che ha vinto anche dei premi per l’etica professionale», ha deciso di vendere: «Lo abbiamo scoperto per caso, notando degli estranei che entravano in azienda, all’inizio ci avevano detto che c’erano solo problemi per delle sanatorie edilizie, poi alla fine sono stati costretti a dirci la verità». Tredici lavoratori a casa, in mobilità. Ma fra quei tredici c’è anche suo marito, il padre di sua figlia Alice, 12 anni. «Mi hanno detto: È un errore da principianti lavorare in due nello stesso posto. Lì mi hanno fatto proprio arrabbiare». Così in un istante il bilancio familiare è sceso dai 2.800 a 1.600 euro: «Con il contratto del commercio prendevamo 1.400 euro a testa, ora ne prenderemo 800». Un’alternativa Cristina l’aveva accettata: «Ci hanno proposto di lavorare per la ditta subentrante con un contratto da socio lavoratore molto peggiore, a 1.000 euro con poche ferie e tutele, ma finora sono state richiamate solo due persone».
Rosaria Albergo, 39 anni, Torino Mamma di una bimba di 8 anni, Rosaria ha sempre messo «la cura dell’infanzia al primo posto». Dopo «anni passati a lavorare nelle comunità con persone con handicap, quando è nata mia figlia ho deciso di fare domanda al Comune di Torino come educatrice per gli asili nido». Da sette anni ogni settembre «aspetta la chiamata dalle graduatorie fino a giugno per poi lavorare con contratti quindicinali a luglio e agosto». Sette anni iniziati con «la prospettiva di una stabilizzazione, grazie al governo Prodi», passati «sempre peggio, fino alla beffa» dello scorso dicembre. «Con una decisione coraggiosa, il sindaco Fassino decide di uscire dal Patto di stabilità, ma nessuno lo segue e dunque solo noi a Torino a fine giugno saremo licenziati per sempre». La spiegazione sta nel fatto che «al Comune che esce dal Patto il governo blocca le assunzioni e il ricorso a lavoratori precari con contratti superiori a 36 mesi, e io come altri 280 che lavorano nei nidi come me lavoriamo da molto di più». Ma Rosaria e i suoi colleghi non si sono persi d’animo: «Abbiamo creato il Comitato zero-sei.com, infanzia bene comune di cui fanno parte anche tanti genitori e con l’aiuto dei professori Ugo Mattei e Dario Casalini abbiamo proposto a Fassino una soluzione giuridica per non buttare alle ortiche le nostre professionalità utilizzando Ipab, un’azienda comunale». Fassino si dice disponibile, ma poi i giuristi del Comune danno parere negativo. Ad oggi «l’unica prospettiva è partecipare al bando che il Comune dovrebbe presentare». La morale è triste («la scelta del sindaco rischiamo di pagarla noi precari») ma l’esperienza è positiva («siamo orgogliosi di quello che abbiamo costruito») e allora oggi «anche se non ci sarebbe niente da festeggiare, saremo in corteo con il nostro striscione, continuando a combattere per la dignità del nostro lavoro».
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