Niente liberi consorzi: Le ex province regionali di Palermo, Catania e Messina si trasformano in Città metropolitane.

Le ex province regionali di Palermo, Catania e Messina si trasformano in Città metropolitane. Risultato: Acireale, Santa Venerina e Aci S. Antonio ritornano nella Città metropolitana di Catania, Termini Imerese in quella di Palermo, nonostante i consigli comunali di tutte e quattro abbiano deciso a maggioranza assoluta di staccarsi da esse.
Gela, Niscemi, Piazza Armerina – i cui consigli comunali avevano approvato a larghissima maggioranza (almeno i due terzi) la proposta di passare ad altro libero Consorzio di Catania – confermata dai loro cittadini per referendum – si trovano ora, contro la loro volontà, inseriti nella Città metropolitana di Catania, visto che questa, come detto, dovrebbe coincidere con la corrispondente ex provincia. L’unica possibilità graziosamente concessa loro, sarebbe quella di rientrare, come novello figliol prodigo (è lecito dubitarne), nei liberi Consorzi di provenienza (Caltanissetta per i primi due, Enna per il terzo).
Tutto questo perché il Governo regionale, nel varare il disegno di legge attuativo della l.r. 8/2014 istitutiva dei liberi Consorzi comunali e delle Città metropolitane, anziché prendere atto di quanto deciso dai comuni, com’era obbligato (art. 2.6-7), ha deciso di cambiare le regole del gioco, cercando di adeguarsi alla riforma varata a livello statale (l. 56/2014 c.d. Del Rio) anziché rivendicare e riaffermare le ragioni della propria autonomia in materia.
E così, come detto, sull’esempio della Del Rio si trasformano le ex province regionali di Palermo, Catania e Messina in Città metropolitane. Ma se è ragionevole assimilare la provincia di Roma con la città metropolitana di Roma, certo non lo è assimilare le città di Palermo, Catania o Messina con i territori delle relative province, per estensione e diversità di relazioni socio-economiche.
Ma il problema che tale disegno di legge solleva è ben altro rispetto a tali scelte politiche, comunque opinabili: si possono ignorare le volontà espresse dalle comunità municipali circa la loro collocazione territoriale ai fini di un più efficace ed efficiente svolgimento delle loro funzioni?
Il punto, si badi, non è solo politico ma anche giuridico. È fin troppo facile, infatti, prevedere che l’eventuale approvazione di una simile contro-riforma, vanificando il percorso istituzionale dettato dallo stesso legislatore regionale, innescherebbe un contenzioso amministrativo che potrebbe facilmente arrivare fino alla Corte costituzionale, in nome del rispetto della volontà popolare espressa nell’esercizio del diritto di autodeterminazione delle comunità locali riconosciuto dall’art. 2 l.r. 8/2014.
Se è ciò quel che si vuole, il legislatore regionale farebbe bene subito a spiegare perché è ragionevole da un lato negare efficacia a quanto finora deliberato dai consigli comunali, contemporaneamente, dall’altro lato, nuovamente consentire loro la possibilità di istituire nuovi liberi consorzi sempre alle medesime condizioni previste prime (180 mila abitanti, continuità territoriale, delibera consiliare da approvare a maggioranza dei due terzi e soggetta a referendum confermativo). In definiva, si consente di (ri)fare ciò che invece si nega..
Sarebbe meglio che la classe politica regionale valutasse bene i rischi cui va incontro una simile riforma, confrontandosi con le realtà locali interessate per cercare soluzioni di reciproca soddisfazione (a Piazza Armerina, ad esempio, se ne discuterà venerdì mattina).
Altrimenti, vi è il serio rischio che una riforma sbandierata come epocale, varata frettolosamente, carica di mille contraddizioni e difetti, già evidenziati su queste colonne, ora, al tirare delle somme, rinneghi se stessa e, quel che è peggio, leda irreparabilmente il bene più prezioso su cui si fonda il patto tra cittadini e Stato di diritto: la credibilità delle istituzioni.

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