Marchionne lamenta che il Sistema Italia non lo sostiene

Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, nazionalità svizzero-canadese, residenza nel cantone di Zugo, continua ad interpretare il ruolo che gli è stato assegnato dagli Agnelli-Elkann, quello di far transitare l’azienda del Lingotto al matrimonio con l’americana Chrysler e portare oltre Atlantico la sede direttiva del nuovo gruppo che ne nascerà. Un ruolo che nel copione prevede anche la solita e datata sfilza di accuse alla politica di non aver sostenuto sufficientemente l’azienda. Un’accusa spassosa se solo si pensa alla interminabile mole di decine di migliaia di miliardi di lire che lo Stato italiano ha versato all’ex Famiglia più ricca d’Italia. Con i governi liberali e fascisti, democristiani e di centrosinistra nella Prima Repubblica, e poi con quelli della pseudo Seconda. Tutti, a vario titolo, hanno sostenuto la Fiat e gli Agnelli con finanziamenti agevolati e a fondo perduto, casse integrazioni a tutto spiano, sgravi fiscali e contributivi, con un mercato interno reso invalicabile per anni all’arrivo di auto di aziende straniere alle quali fu impedito di realizzare stabilimenti di produzione. Viste queste premesse la Fiat ha vissuto come un affronto personale il mancato rinnovo degli incentivi alla rottamazione che, ad onor del vero, hanno penalizzato anche le aziende straniere. Un affronto che ha rappresentato una scusa in più per avviare il progressivo smantellamento delle fabbriche italiane che vedrà a fine dicembre la chiusura di quella siciliana di Termini Imerese e che ha registrato la militarizzazione di quelli di Mirafiori e di Pomigliano d’Arco e la parziale normalizzazione di quelli di Melfi e Cassino. La parola d’ordine che si è fatta passare è stata quella della maggiore produttività del lavoro che si dovrebbe ottenere nelle fabbriche italiane come se poi il problema fossero le poche auto prodotte e le insufficienti economie di scala raggiunte e non già la scarsa qualità dei prodotti offerti alla clientela. Una realtà che è dimostrata dal crollo verticale delle vendite che da anni caratterizza la vita della Fiat in Italia e in Europa mentre altri gruppi, vedi la Volkswagen che da anni continua ad investire nell’innovazione di prodotto, registrano vendite record. Marchionne, molto Cicero pro domo sua, ha fatto proprie le lamentazioni del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che aveva parlato della solitudine degli imprenditori, a fronte di un Sistema Italia che non è in grado di avviare una seria politica industriale ed aiutare le imprese ad affrontare il mercato globale. Un sistema che è fatto di sindacati intransigenti (Cgil) ma anche collaborativi o collaborazionisti (gli altri), e di un governo che ha fatto quello che ha potuto, appoggiando con il ministro del Lavoro, l’ex socialista Maurizio Sacconi, il progetto di Fabbrica Italia. Un progetto che in realtà dovrebbe chiamarsi Fabbrica Usa e Canada se solo si pensa a quale sarà il futuro della Fiat. E’ il sistema – ha precisato Marchionne – che continua a costringere la Fiat a difendersi per questo piano. Affermazione che significa che non tutti gli italiani, politici, sindacalisti ed operai sono molto contenti dei ritmi schiavistici di lavoro imposti nelle fabbriche Fiat con la scusa di voler inseguire una produttività lontana dai livelli di quella dei concorrenti o degli stabilimenti della Fiat in Polonia e Brasile dove la fame di lavoro è tanta che gli operai accettano salari che sono due volte e mezzo minori che a Mirafiori e Melfi. Il costo del lavoro resta infatti la variabile su cui ragionano Marchionne e John Elkann, il fratello di Lapo. Per fare concorrenza alla Transit della Ford, si punterà infatti a realizzare Suv della Chrysler e dell’Alfa Romeo a Mirafiori puntando al mercato nord-americano che finora, la Ferrari è un caso a parte, ha in genere dimostrato di non apprezzare in particolare modo le auto italiane, in quanto considerate poco adatte per muoversi sulle grandi distanze.

Fonte: Rinascita

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