L’Unesco riconosce il siciliano come lingua regionale, lingua che non deriva dall’italiano

Non si può iniziare a scrivere di un argomento che ha per tema la nostra lingua madre e cioè il siciliano se non affrontando un quesito circa il suo essere definita lingua o dialetto.

Certo è che il siciliano non deriva dall’italiano ma da una serie di dialetti usati in Sicilia nella sua millenaria storia. Come l’italiano infatti deriva direttamente dal latino parlato e come ormai assodato rappresenta la prima lingua letteraria italiana nella Sicilia del XIII secolo nell’ambito della Scuola siciliana e presso la corte di Federico II di Svevia ebbe il suo massimo fulgore.

L’Unesco riconosce il siciliano come lingua regionale tanto che gli è stato assegnato un codice per classificarlo in un elenco di altri idiomi a rischio scomparsa, fatto è comunque che la sua storia è estremamente complessa ed affascinante oltre che sicuramente la più ricca di contaminazioni nell’ intera area neolatina.

Nel siciliano dei nostri giorni possiamo ravvisare diverse influenze linguistiche derivanti dalle varie dominazioni che si sono avvicendate nel corso dei secoli per cui dal latino di base si passa al greco-bizantino, dall’arabo al normanno per finire con le influenze spagnole.

Tutte queste contaminazioni derivanti da lingue e culture diverse dalla nostra si ravvisano nelle parole che usiamo giornalmente e che fanno ormai parte della della nostra identità e rappresentano attraverso il linguaggio ciò che siamo.

I primi a contaminare la lingua autoctona dei Siculi furono i greci che porteranno con loro un retaggio culturale di incredibile ricchezza, la lingua greca quindi non ebbe difficoltà a diffondersi nell’isola in un periodo in cui Siracusa poteva competere con Atene, Archimede brillava del suo genio, il filosofo Empedocle ci diceva del nostro essere.

I termini greci sono veramente tanti ne citiamo solo alcuni: abbacari (calmare) da abakéo, babbiare (scherazare) da babazo e cioè ciarlare. Cartedda (cesta) da kartallos, cirasa (ciliegia) da kérasos, taddarita (pipistrello) da nycterida, tuppuliari (bussare) da typto.

Con la definitiva conquista dell’isola da parte dei romani entrano tantissime altre parole come: antura (poco fa) da ante horam, a st’ùra (a quest’ora) da ad istam horam, prescia (fretta) da pressus, susu (sopra) da sursum.

Col dominio arabo dall’827 al 1072 si affermerà una sorta di linguaggio siculo arabo per cui nomi di paesi, città, monti e tutto quello che riguarda i termini usati in agricoltura saranno influenzati dal nuovo status quo.

Nei vocaboli di uso comune abbiamo per esempio: arrassari (allontanare) da arata, babbaluci (lumaca) da babalush, falari (grembiule) da fadlah, veste da lavoro, giarra (giara) da giarrah, sciarra (lite) da sciarr, guerra.

Arriviamo allora al dominio Svevo sotto lo Stupor Mundi e cioè Federico II di Svevia e per quanto ostiche anche alcune parole tedesche entrano nell’uso comune eccone un esempio: feu (feudo) da fehn, guastedda (pagnotta) da wastel, muffutu ( ammuffito) da muff, tanfo (puzza) da tampf.

Ma è con l’arrivo degli Angioini a cui i Normanni prima avevano fatto da apripista che avviene la contaminazione francese dell’idioma ecco alcuni esempi come: arrusciari (innaffiare) da arroser, boffa (schiaffo) da bouffe, cirasa (ciliegia) da cerise, darrieri (dietro) da derriére, muschitta (moscerino) da moustique, zanzara, racina (uva) da raisin.

Inoltre è grazie ai francesi che la zona Ucciardone si chiama così, li anticamente crescevano in abbondanza i cardi selvatici e per indicarla i francesi dicevano “Où il y a les chardons”.

Nel 1516 comincia la lunga dominazione spagnola, la magnificenza della corte di riflesso si proietta anche sul popolo, la città è investita da un fervore architettonico inusuale, sorgono imponenti palazzi, ricche chiese, grandi monasteri il tutto tra feste religiose spettacolari.

La lingua spagnola ha gioco facile a permeare la lingua parlata locale, affine per tanti versi e legata quasi da un vincolo di parentela.

Il latino ed il greco diventeranno la lingua dei dotti, l’arabo è un lontano ricordo, ed il siciliano imperversa come lingua comune a tutti. Dallo spagnolo ecco pochi esempi: anciòva (acciuga) da anchoa, capuliàri (tritare) da capuliar, jurnàta (giornata) da jornada, lazzu (laccio) da lazo, manta (coperta) da manta; scupetta (fucile) da escopeta.

Un’ultima considerazione di carattere semantico ma anche socio-antropologico, nel nostro dialetto il futuro non esiste, già proprio così siamo privi del tempo futuro.

Per cui dovendo dire per esempio “Domani andrò al mare” in siciliano diremo Dumani vaiu a mari ovvero domani vado al mare, tutto viene trasformato nel tempo del presente.

Se ne crucciava Leonardo Sciascia affermando che era impossibile non essere pessimisti in una terra in cui non esiste futuro riferendosi a questo singolare caso linguistico.

E’ come se per noi siciliani sia impossibile pianificare e fare progetti a lungo termine, ancorati come si è ad un passato immutabile per forza di cose e ad un eterno presente.

E se qualcuno osa scuoterci da questo torpore o vuole “insegnarci le buone creanze” come diceva Don Fabrizio nel Gattopardo non ci riuscirà perchè “Noi siamo dèi, i siciliani credono di essere perfetti, la loro vanità è più forte della loro miseria”.

Il futuro si trasforma allora in una somma di oggi che affrontiamo senza eccessive aspettattive con disincanto e diffidenza, particolari che un grande della pittura come Antonello da Messina ha immortalato in alcuni celebri ritratti.

Ma se è vero che la vanità nei siciliani è più forte di tutto, il rischio allora per alcuni potrebbe essere quello di credersi un capolavoro quando invece si è solo una copia mal riuscita di qualcos’altro.

IMMAGINE DI CARMEN MUNAFò

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