La lingua italiana è nata in Sicilia

di Noemi Ghetti

Il ritrovamento di alcune poesie della scuola siciliana in una biblioteca lombarda da parte del ricercatore Giuseppe Mascherpa riporta in primo piano il dibattito sulle reali origini della lingua italiana.
Il tema è stato a suo tempo riproposto da Cesare Segre che ha sottolineato come proprio al «cambiamento di prospettiva» nella ricerca sia dovuto l’improvviso rivelarsi, negli ultimi tempi, di manoscritti duecenteschi in luoghi fino ad ora insospettabili. Ne è esempio la scoperta di almeno quattro testi poetici siciliani sul verso di pergamene recanti sentenze di condanna di esponenti di grandi famiglie guelfe per violazioni di norme sui tornei. A quei tempi, si sa, i notai erano spesso poeti, e riempivano in tal modo gli spazi bianchi, al fine di impedire che ci fossero aggiunte illecite a margine degli atti.

Si tratta di frammenti di poesie importanti, ascrivibili tra gli altri ad autori come Giacomo da Lentini, ‘il Notaro’ fondatore della Scuola, e addirittura a Federico II, l’imperatore-poeta che ne fu il geniale promotore. Avvenuta nel cruciale ventennio 1270-1290, la trascrizione induce a ipotizzare l’esistenza di un piccolo canzoniere di liriche della Scuola siciliana, circolante in Lombardia in quegli anni. E va ad aggiungersi al recente ritrovamento di un altro manoscritto mutilo, rinvenuto da Luca Cadioli nella soffitta di una dimora nobiliare milanese, che contiene l’unica fedele traduzione dal francese del Lancelot du lac, il famigerato romanzo sugli amori di Lancillotto e Ginevra, ricordato da Francesca da Rimini nel canto V dell’Inferno.
Adesso come allora, ancora una volta per noi, «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse»: questi ritrovamenti suonano come una convalida dell’originale idea che la nostra lingua nasca agli inizi del Duecento dalla rivolta dei poeti siciliani contro il latino ecclesiastico, sviluppata nel 2011 nel saggio L’ombra di Cavalcanti e Dante (L’Asino d’oro edizioni).
Le trascrizioni dei siciliani sono interessanti soprattutto perché lasciano intravvedere l’originale veste linguistica delle liriche, finora perduta tranne che in un singolo caso, e sono antecedenti alla versione toscanizzata attraverso cui le conosciamo. Se ne ricostruisce, è quanto qui ci importa dedurre, il panorama di una cultura letteraria laica, diffusa nel Duecento nella penisola italiana ben al di là di quanto lo schema tradizionale lasci immaginare.
Si intacca in questo modo una consolidata ricostruzione storica che fa dei toscani, all’indomani della caduta degli Svevi e del partito ghibellino a Benevento (1266), i soli eredi della poesia siciliana. E in effetti viene subito in mente che l’Italia settentrionale accolse catari e trovatori in fuga, all’indomani della feroce crociata albigese che disperse la civiltà della vicina Provenza. E che nell’Italia settentrionale persisteva una diffusa tradizione di cantari francesi d’amore e d’avventura che, ripresa felicemente nella Ferrara quattrocentesca dall’Orlando innamorato di Boiardo, fu poi riportata nel Furioso di Ariosto alla norma anche linguistica del fiorentino canonizzato nel 1524 dal cardinale Pietro Bembo.
La reazione della Chiesa contro la magnifica fioritura laica del Duecento fu infatti durissima, se ancora nel febbraio del 1278 nell’Arena di Verona un immane rogo arse gli ultimi 166 catari, e nel 1285 fu assassinato il filosofo parigino Sigieri di Brabante. Scomunicato e condannato a morte, attendeva il perdono papale nella curia di Orvieto, dove si era rifugiato dopo che nel 1277 il vescovo di Parigi Tempier aveva giudicato eretiche le proposizioni dell’averroismo latino che avevano animato, col De amore di Andrea Cappellano, la poesia delle origini fino allo Stilnovismo di Guinizzelli e Cavalcanti. Il delitto certo non passò inosservato negli ambienti Stilnovisti. Così nell’ultimo decennio del Duecento venne la conversione di Dante dall’amore per la donna all’amore per Dio, che procede per tappe successive dalla Vita Nova attraverso il Convivio fino alla Commedia. Venne, nell’anno 1300 in cui si colloca il viaggio oltremondano della Commedia, l’esilio da Firenze firmato da Dante e la precoce morte di Cavalcanti.

Nel Poema sacro Federico II è condannato all’Inferno (X) nel girone degli eretici «che l’anima col corpo morta fanno», a cui è destinato il maestro e «primo amico», dotato sì di «altezza d’ingegno», ma che «ebbe a disdegno» la fede. Pier delle Vigne, poeta siciliano segretario dell’imperatore, è collocato tra i suicidi, e racconta a Dante il proprio dramma in modo involuto, perché la colpa imperdonabile dei Siciliani, agli occhi di Dante, è l’avere tentato una ricerca sull’amore passione carnale, al di fuori della religione, inventando una nuova lingua. Sordello da Goito, trovatore che aveva trovato fortuna in Provenza ed era rientrato in Italia nel 1269, di origini mantovane al pari di Virgilio, è collocato invece nel Purgatorio (VI-VIII), al pari di altri poeti del Duecento.
Il pregiudizio nei confronti dei Siciliani ha dunque radici antiche, e un’analisi attenta dei testi danteschi e le soluzioni che via via si imposero nella secolare ‘questione della lingua’ dimostrano come, a dispetto dei riconoscimenti, esso abbia origine da Dante stesso. Fu il Sommo poeta a costituirsi come ‘padre’ della moderna lingua italiana, oscurando cento anni di ricerca della poesia d’amore da cui essa era nata, con un sistematico lavoro di risemantizzazione in funzione spirituale e cristiana del lessico volgare delle origini. Ancora nell’Ottocento un critico sensibile come Francesco de Sanctis dimostra una certa sordità nei confronti dei poeti della Scuola siciliana, e si è dovuto attendere fino al 2008 per avere la prima edizione critica completa e commentata in tre volumi dei Meridiani.
Interessa qui segnalare a margine, nel ristretto numero degli studi ‘inattuali’ del secolo scorso come quelli di Bruno Nardi e Maria Corti, l’originale giudizio gramsciano dei Quaderni del carcere sul Duecento e Dante. Se è forse più conosciuto il saggio sul canto X dell’Inferno contenuto nei Quaderni (1931-32), con esplicite prese di distanza da Croce e importanti messaggi in codice destinati all'”ex amico” Togliatti, certo meno noto è l’apprezzamento di Gramsci per Guido Cavalcanti. Le sue parole, che lo erigono a «massimo esponente» della rivolta al pensiero teocratico medievale e del consapevole uso del volgare contro la romanitas e Virgilio, furono riprese quasi alla lettera da Gianfranco Contini. La Commedia è per Gramsci, che fu fine linguista, il «canto del cigno medievale», e il suo lavoro di latinizzazione del volgare segna la crisi della rinascita laica e il passaggio all’umanesimo cristiano. Leggere la Commedia «con amore» è atteggiamento da «professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici». Apprezzarne i valori estetici, scrive a Iulca in una lettera dal carcere del 1931 mettendola in guardia da una trasmissione acritica del poema ai figli, non vuol dire condividerne il contenuto ideologico.

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