Il commisario Lo Presti dovrà risarcire l’ente di 107 mila euro: Continuo con immutato impegno il mio incarico a Termini

I giudici della Corte dei conti, presieduta da Guido Carlino, hanno condannato il dirigente della Regione Siciliana Antonio Lo Presti a risarcire l’ente di 107 mila euro per l’incarico aggiuntivo ritenuto illegittimo. Lo Presti era stato citato in giudizio dalla Procura regionale della Corte dei conti per danno erariale di 214 mila euro circa. I pubblici ministeri contabili proseguono le indagini sugli incarichi aggiuntivi dei dirigenti regionali.

Il dottore Lo Presti raggiunto telefonicamente ci ha dichiarato: “Le sentenze di primo grado sfavorevoli si appellano, perché si ritiene che siano sbagliate. Continuo con immutato impegno l’incarico affidatomi a Termini.”

L’ufficio del procuratore Gianluca Albo aveva delegato gli accertamenti al Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Palermo, guidato da Gianluca Angelini. La legge prevede, nel caso dei dirigenti con incarico apicale, il principio di omni comprensività del trattamento economico. Non si possono avere, dunque, ulteriori retribuzioni. Nel caso di funzioni non apicali gli enti pubblici presso i quali i dirigenti regionali svolgono l’incarico «aggiuntivo» devono versare il 100% del compenso nelle casse della Regione siciliana. Quest’ultima liquida il 50% al dirigente e versa la metà rimanente in un apposito fondo. Non devono esserci pagamenti diretti fra ente e dirigente. Nel caso di Lo Presti sarebbe emerso un «insanabile conflitto di interessi» fra il suo incarico pubblico di dirigente regionale responsabile dell’Unità relazioni sindacali e contrattazione decentrata» e l’incarico di amministratore unico della Società servizi riabilitativi spa, che fino a qualche anno fa era partecipata dall’Asp di Messina che ha poi ceduto le quote. Lo Presti avrebbe omesso di comunicare alla Regione la privatizzazione della società. In questa maniera avrebbe continuato a percepire il doppio stipendio in violazione del principio secondo cui «non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati».

«L’autorizzazione ottenuta per l’assunzione di un incarico di amministratore unico di una società partecipata – scrivono i giudici nella sentenza – maggiormente dalla pubblica amministrazione non può continuare a ritenersi efficace anche nel caso di successiva privatizzazione della stessa, atteso il mutamento delle condizioni essenziali per la concessione dell’autorizzazione stessa. Sarebbe stato quindi onere del convenuto cessare immediatamente dall’incarico e informare l’amministrazione di appartenenza della diversa sopravvenuta situazione di fatto».
Per i giudici il danno è quantificabile nel 50% delle retribuzioni corrisposte dall’amministrazione di appartenenza nel periodo di contestazione e quindi 107 mila euro.

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