“Young Factor: Insieme per un Compito”

Comunicato Stampa

“Young Factor: Insieme per un Compito” è il tentativo di un gruppo di amici, da cui sono fiorite realtà associazionistiche che operano su tutto il territorio siciliano, di incontrare giovani studenti sul tema della “Legalità e della Giustizia”.

Professare un tema come quello della Legalità e della Giustizia non è semplice.
Mai come negli ultimi decenni la storia della nostra bella Sicilia è stata caratterizzata da un pullulare di esperti, cortei, associazioni, nuovi partiti che hanno sventolato la bandiera della legalità, che a casa nostra ha un copyright ed è quello dell’Antimafia, inneggiando al cambiamento.
Mai come in questi giorni si può essere assaliti dallo sconforto se la figlia di Paolo Borsellino il 3 luglio è arrivata ad affermare che: <>. E ancora: << oggi torno a essere la figlia di Paolo. E, in nome dei suoi semplici insegnamenti, chiedo a tutti di non invitarmi, il 19 luglio, alla commemorazione di via D'Amelio>>.

Non è opportuno soffermarmi in vicende che il lettore medio di testate giornalistiche conosce meglio di me. Se mi sono permessa questa breve digressione è per rendervi partecipi che la decisione di implicarci con il tema della legalità non ha origine né in una “devozione” a questa nuova forma religiosa che ha riti e sacerdoti da far impallidire anche le più antiche religioni, né in una riduzione del problema che essa pone.

Decidere di entrare in classe è stata una vera sfida.
L’esperienza di questi anni ci ha insegnato che ciò che noi offriamo entrando in classe sono le nostre stesse persone. Non un discorso dunque, ma le nostre stesse persone. E’ solo il nostro essere che può accendere l’essere dei ragazzi. Senza questa radicalità in classe non può accadere nulla di nuovo, se non la ripetizione formalistica di un discorso o più tecnicamente la trasmissione di nozioni e competenze, perché mancherebbe l’io.

Per questo dico che la vera sfida è stata decidere di entrare in classe.
Con quale pretesa la mia persona poteva entrare in classe senza censurare da un lato la crisi, non solo morale, che ferisce i nostri tempi, dall’altro il disagio dei giovani?

Partire da ciò che la realtà poneva come dato anche se problematico, ha acceso in noi l’esigenza, e solo come conseguenza l’intelligenza, di un lavoro “personale”. Sostenuti dalla tradizione, cioè dalla ricchezza del passato personale e non, ci siamo osservati in azione, cioè a dire abbiamo cercato di cogliere che tipo di contraccolpo subisce la nostra persona nell’imbattersi con il sistema di regole create per la realizzazione della civile convivenza e per il bene comune che è la legalità. Non dunque una riflessione in astratto ma un tentativo di giudizio che a poco a poco emergeva dall’esperienza. Questo tipo di approccio ci ha condotti in un luogo fatto più di domande che di risposte da assumere e somministrare come terapia. E le domande hanno a poco a poco toccato il nocciolo della questione: l’io con tutte le sue esigenze strutturali di giustizia, bellezza, amore, felicità. La scoperta originale e quindi antica, il nocciolo della questione non era più fuori di noi, non era più sociale, etico o culturale, ma esistenziale. Perché prima che sorgesse il problema delle leggi, della civile convivenza e del bene comune l’uomo se è uomo ha sempre dovuto rispondere ad una domanda: può la realtà con tutte le circostanze che essa pone non tradire quel desiderio di giustizia che resiste ad oltranza in noi, seppure seppellito da cumuli di macerie, che essa stessa evoca?

Liberati noi stessi da questioni tutte importanti ma che, se non arrivano a toccare la radice del problema, rimangono non essenziali abbiamo scoperto “laddove nessuno ha mai pensato di cercarla”, come dice Hannah Arendt, una alleanza con i nostri giovani studenti, uno spazio comune, che è la nostra coscienza, cioè << il lieve vento del pensiero ( che) non è la conoscenza; (ma) l'attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto>>( H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 289).
Ci siamo dunque scoperti compagni di viaggio con i nostri giovani studenti, un viaggio che è la vita, piena di contraddizioni, prima fra tutte la nostra persona che non compie il bene che vuole, ma il male che detesta. Occorre tornare a far amicizia con la propria vita, piuttosto che teorizzare su di essa formulando tecniche che possano scioglierne il dramma. Perché è nel dramma che la vita pone e cioè nella continua e nuova contraddizione fra ciò che è e ciò che ha da essere, che io posso mettermi in dialogo con qualcosa Altro, fuori da me, che mi provoca, mi interroga e mi espone ad una responsabilità. Il dramma è dunque il luogo dell’io perché in esso si rivela la vera dignità dell’uomo, la vera statura dell’uomo, come dipendenza, rapporto, dialogo, dove desiderio di compiutezza e mancanza possono finalmente essere riconosciuti e accettati come ultima evidenza di un Io che c’è, resiste a qualsiasi circostanza. Questo ultimo realismo è l’unica lente attraverso cui poter guardare ragionevolmente alla dimensione sociale della nostra vita che è la legalità, perché è l’unica lente attraverso cui guardare tutte le dimensioni, pubbliche e private della umana esistenza. Desiderio e mancanza impediscono all’io di cristallizzarsi, di aderire acriticamente e ancor peggio inconsapevolmente a qualsiasi forma di “potere” , di smarrire le ragioni per cui vale la pena spendersi per il bene. Lontani da se stessi come desiderio e mancanza si vive nella menzogna di una superba autosufficienza, che prima o poi presenta un alto costo da pagare: la perdita di energie, un indebolimento etico, uno svuotarsi della volontà fino all’annichilimento di ogni slancio. Tutta la responsabilità dell’io come persona e non come categoria sociale, politica, filosofica sta nell’accogliere, come abbiamo già detto, l’evidenza che egli è desiderio e mancanza. Da qui l’apertura nel cercare luoghi vivi dove ci si possa sostenere in questo compito e non sepolcri imbiancati nelle cui urne cinerarie sono conservati i “valori”. Diceva Havel nel “Potere dei senza potere” che occorrono luoghi molto più simili a “comunità” che ai “partiti”, mentre il Papa ci ricordava che << per educare un figlio occorre un villaggio>>. Le comunità, i villaggi sono luoghi di vita, dove sempre è possibile incontrare chi sta già cominciando a vivere una umanità più piena, più vera, più giusta e uno allora può chiedere: ma tu come fai a vivere così? Perché quello che tu sei è desiderabile, sembra quasi che ciò che avevo presagito essere la Bellezza, la Giustizia, la Bontà abbia preso carne e vita in te!
Questa è l’ipotesi di lavoro con cui ci siamo presentati ai ragazzi. Da Messina a Pantelleria.
Mercoledi 11 novembre saremo a Termini Imerese, ospiti dello “Spedale della SS. Trinità”(oggi noto come Museo Civico Baldassare Romano) dove reincontriamo i ragazzi dello Stenio che hanno incominciato con noi questa avventura durante lo scorso anno scolastico. Proporremo ai ragazzi l’affascinante sviluppo di una vita che è quella della comunità per giovani disadattati e tossicodipendenti L’Imprevisto di Pesaro. A darne testimonianza il dott. Silvio Cattarina, sociologo e psicologo, fondatore della comunità e due dei suoi giovani ospiti. “Un fuoco sempre acceso” è il titolo che abbiamo preso in prestito dall’ultimo libro di Silvio Cattarina. L’incontro, seppure rivolto agli studenti, è aperto a chiunque, magari incuriosito da queste mie righe, voglia venire a dare un’occhiata a questa piccola comunità di adulti e ragazzi, al piccolo villaggio che è e che ha da essere “Younfactor. Insieme per un compito”.

Maria Concetta Buttà.

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